A cura di Silvia Mattina
La prima volta che ho avuto modo di vedere le opere di Danilo Mauro Malatesta me ne sono innamorata immediatamente. Davanti ad alcune sue fotografie, compresi appieno quello che voleva trasmettermi Marco Pietrosanti. La folgorazione si consumò nell’approccio con le attese, le lastre vitree e le sostanze chimiche tipiche di questa antica tecnica, anche se la vera “rivelazione” fu a contatto con quel mistero impresso nel vetro, la Sindone.
Danilo è un fotografo-chimico che ricorre con pazienza e caparbietà all’impressione per rendere manifesta la nostra paura per imperscrutabile, aiutando a far emergere la luce che è in ognuno di noi. Dunque per comprendere questo lavoro non si può prescindere dalla sua riflessione sulla fede e sulla fotografia e l’analogico, che da tempo persegue sul campo con passione e dedizione e che solamente ora è pronto a presentare al pubblico. Un debutto che ha già il sapore dell’affermazione di una personalità dalle spiccati doti artistiche e da una sensibilità e un trasporto emotivo, già ampiamente strutturati.
Con un passato da fotoreporter e un presente da regista, la sua vocazione per la fotografia è ormai un’urgenza, vissuta come un’esperienza irrinunciabile; Danilo non si risparmia mai davanti a lunghe e pesanti sedute fotografiche pur di assecondare l’esigenza espressiva della rappresentazione di volti e corpi tra sacro e profano.
Il suo amore per la camera oscura risale all’adolescenza, quando quindicenne si intrufolava in studi romani prestigiosi, tuttavia si fa strada in lui la volontà di dedicarsi a progetti fotografici personali solo di recente e dopo dieci lunghi anni da fotoreporter in Africa occidentale. Nel frattempo è avvenuta la rivoluzione del digitale che ha creato una produzione abnorme di immagini, entrando prepotentemente nella vita ordinaria di ognuno di noi. Per Danilo non è così, il suo modo di vedere e scattare rimane ancora legato a questo piccolo mondo antico e le ragioni le spiega lui stesso, “mi fa apprezzare ancor di più la solidità concettuale dell’immagine analogica, quindi scritta con la luce”.
Ma perché proprio l’ambrotipia? Danilo è considerato un vero e proprio “rivoluzionario” perché ogni giorno decide di non seguire la scorciatoia del digitale, ma sente di doversi impadronire di una tecnica e di una “procedura” lontana nel tempo e nello spazio dalla mentalità contemporanea. Dal greco ambrotos, immortale, l’ambrotipia è figlia di quella sperimentazione che porta il nome dal padre adottivo, lo statunitense James Ambrose Cutting e la data del suo brevetto, il 1854.
Il segno unico e indelebile è il prodotto dell’incontro tra l’intenzionalità mentale nell’individuare una precisa traccia in pochi secondi e l’instaurarsi di una forte interazione con il soggetto. Si gioca tutto in sette secondi, durante i quali il modello è portato alla massima concentrazione e a sgombrare la mente per trasmettere quell’intensità che crea un profondo legame con il fotografo stesso e con chi la guarda. Ciò che affascina in realtà di questa tecnica, non è l’istante dell’impressione, bensì gli attimi prima e immediatamente successivi che necessitano di delicatezza, velocità e pazienza.
I diversi stadi si succedono ritualmente, dalla cattura alla camera oscura, fino ad arrivare ai tanti sospirati istanti del fissaggio, quando il collodio agisce sul negativo. Il fiato sospeso per l’attesa, la trepidazione dell’impazienza rendono vivo e vitale il lavoro di Danilo che si pone attivamente nel processo di creazione.
Come un demiurgo di accezione omerica, il fotografo ha composto l’opera della Sindone, lastra dopo lastra, organizzando il lavoro quotidianamente per sei lunghi mesi e dominando le regole della tecnica, al solo fine di ottenere quella grandezza fisica ed emotiva propria del simbolo. Un risultato impossibile da ottenere con il click veloce dell’attrezzatura digitale, l’ambrotipia ha permesso a Danilo di “affezionarsi” al Cristo, di comprenderne il corpo e l’essenza della spiritualità e di non abbandonarsi all’atto di fede ma all’organizzazione consapevole di un impianto valoriale.
Per arrivare a questa dimensione, Danilo ha cominciato a considerare come la possibilità dell’errore, comprensibile in tale delicato meccanismo, potesse essere la giusta chiave di lettura dell’icona del fondatore del cristianesimo e della Chiesa. Un guizzo e un’intuizione che ha permesso di lavorare insieme sulla creazione di una narrazione della frantumazione.
Nel momento esatto in cui Danilo decide intenzionalmente di rompere in tanti pezzi la figura del Cristo, inconsapevolmente riduce in schegge l’incrollabile tenacia del credente.
Dalla figura intera del Cristo scomposto si sviluppano altre tre fotografie in cui i dettagli della mano, del volto e degli strumenti della passione costituiscono a loro volta tasselli di un’enorme puzzle vitreo. Il disturbo dei solchi che attraversano lo sguardo del Messia o che lacerano la sua mano, impone un ritmo rallentato all’osservatore, al quale non resta che indugiare sulle sofferenze di un uomo tradito dai suoi stessi compagni. Da qui, le complesse diramazioni della poetica di Danilo acquistano una plastica fisionomia.
Di fronte all’incidere inesorabile di una tecnologia che alimenta distrazioni e un mondo di risposte a portata di mano, il percorso di “Schegge mistiche” inizia dalle diffrazioni emotive della frantumazione e trova il proprio senso profondo in una collettiva operazione critica.
Una concezione dell’immagine che è figlia di un rapporto fenomenologico sulla sua stessa interpretazione tra il 1960-1969 e che vede tra i protagonisti, Giosetta Fioroni, Tano Festa, Mario Schifano, etc.; ma che ancor prima ha avuto degli illustri modelli nei fratelli Bragaglia e il concetto di “lacerazione multisfaccettata” dell’immagine degli inizi del Novecento.
I rimandi all’interpretazione dell’immagine di Michelangelo Pistoletto, nella fattispecie, appaiono evidenti, laddove il fotografo riprende dai suoi celebri specchi alcuni motivi ricorrenti quali, l’oggettivazione della rappresentazione e la visione olistica di appartenenza.
Ecco allora che di fronte a queste rotture come ritratti di fatti o circostanze, sembra riecheggiare il pensiero positivo per una vita creativa del classico Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello: “Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. La realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani.”
Anche nell’installazione realizzata da Marco Pietrosanti, poco più di dieci schegge delle lastre frantumate da Danilo, è ravvisabile una continuità di ispirazione e contenuti con le quattro opere del Cristo. Qui, la caduta a cascata di frammenti delle diverse forme esprime la difficoltà dell’individuo di riflettere su qualcosa di profondo in favore di un linguaggio impoverito e sempre più schematico. Ecco allora che ritroviamo nella sagoma della Sacra Sindone quell’atmosfera in bilico tra il surreale e il metafisico in cui l’autore rende manifesta la sua necessità di “silenzio emotivo” per ritrovare l’essere autentico e universale sepolto in ognuno di noi. Di fronte all’invadenza del medium tecnologico e dei social media, nonché alla paura della fatica e della complessità, Danilo consegna l’antidoto metafisico con “la risposta all’interezza umana, che stiamo perdendo e, al contrario, dovremmo riconquistare”.